Sara Enrico “Unearth Desires” Vistamare / Milano di

di 6 Marzo 2025

Si muovono? Sono ferme? Adagiate sul pavimento della galleria, a un primo sguardo d’insieme, sembrano convivere come presenze immobili e un po’ deformate, certamente ambigue. Dopo aver frequentato lo spazio, ed essere entrati in sintonia con il loro ritmo dilatato e lento, ci sembra che tre di loro si siano cercate, guadagnando una prossimità, mentre l’altra si è forse da poco allontanata, inseguendo un cenno di penombra vicino alla porta di ingresso. Chissà se invece raggiungerà poi le altre. Ad ogni modo, tutte si sono “arrese” a uno stato di solitaria inerzia che ne connota posture involontarie e felicemente improduttive, in uno spazio-tempo di stasi e riposo. Ma è una stasi che ci appare tale solo perché i movimenti che abbiamo descritto potrebbero essersi svolti a velocità talmente rallentate da risultare impercettibili. Ed è da questi termini messi in campo che le sculture di Sara Enrico sembrano trovare la loro forza poetica: si sono appunto “arrese” ma non sono del tutto inermi; sono solitarie ma cercano forme di vicinanza reciproca; sono improduttive ma conservano un minimo di energia vitale. Questa energia è tanto più potente quanto più queste presenze ci appaiono del tutto senza vita. Del resto, questi quasi-corpi la cui unità è denunciata dal colore, non sono solo sul punto di allontanarsi o avvicinarsi tra di loro, ma sembrano spesso scissi al loro interno, come composti ognuno da più parti che si contorcono, si distanziano o si inseguono, e sembrano spesso aver raggiunto un punto limite dopo il quale la loro forma potrebbe dividersi in due. Ogni scultura quindi, è caratterizzata da una tensione nei confronti delle altre e da una tensione tutta interna, ed è l’insieme di queste forze ad animare lo spazio.

Appartenenti alla serie The Jumpsuit Theme (2017 – in corso)1, queste quattro sculture in cemento e pigmenti puri – dai toni che vanno dal rosso delle terre ai viola – occupano l’intero palcoscenico di “Unearth Desires”, mostra personale di Sara presso la sede milanese di Vistamare. Nate durante una ricerca che l’artista ha condotto nell’Archivio del ’900 del Mart, queste opere trovano ispirazione in due fondi: quello dell’artista futurista Ernesto Thayaht (1893-1959) che nel 1919 ha inventato l’iconico e universale indumento della TuTa, e in quello della stilista francese Madeleine Vionnet (1876-1975), pioniera di un rinnovamento nel vestire una donna emancipata e libera da costrizioni di costume ottocentesche, la cui visione ha avuto un impatto notevole non solo dal punto di vista stilistico, ma anche in ambito sociale. Applicando il loro approccio sartoriale – che rivendicava una certa libertà di movimento favorita da un utilizzo armonico del tessuto – al proprio operare artistico, Sara ha elaborato un linguaggio formale che indaga le potenzialità materiche delle superfici scultoree in relazione alle politiche del corpo e di abito, e al concetto di ‘vestito da abitare’, con tutte le loro implicazioni relazionali, di prossimità e contatto.

Per la realizzazione delle opere di The Jumpsuit Theme – dove theme indica proprio una variazione del tema della tuta – l’artista impiega delle casseforme in tessuto tecnico dentro le quali cola il cemento, il quale fluendo “genera una sensazione di vitalità latente, assegnando forma e peso a quel che sarebbe un corpo che cerca appoggi, posizioni, si allunga o si ripiega nello spazio.”2 Il materiale grezzo aderisce infatti perfettamente alla sua matrice e acquisisce una condizione inedita e non controllabile: bolle d’aria, pieghe, tagli, cuciture, screziature di colore, solchi, trame, giochi di texture, tracce residuali di un movimento denso che spinge verso una dimensione di “prossimità tattile” la quale, imponendo i suoi tempi processuali di attesa, riposo e rilascio, sollecita un “erotismo della pelle”.3

Per “Unearth Desires” Sara ha deciso di posizionare le opere direttamente a terra, sotto il lucernario del grande spazio centrale di Vistamare, come a definire il campo di “inazione” delle sculture che, nelle loro pose più o meno antropomorfe, sembrano sempre in procinto di attivare una possibile coreografia. La luce naturale proveniente dall’alto si mescola a quella artificiale della galleria che l’artista ha deciso di non cambiare, ma di depotenziare leggermente. Ne risulta una messa in scena che non ovatta le sculture, ma anzi le anima nella forma e nella superficie che ancora pare trasudare sensazioni epidermiche, dando l’impressione di una seconda pelle, sensibile e ricettiva. Coreografia e messa in scena non vanno però intese nel senso comune, di un prestabilito concerto di movimenti che formano una serie di immagini o azioni. Ogni rappresentazione, in realtà, sembra qui collassare non solo in virtù del posizionamento sempre “aperto”, ma anche di quel tempo dilatatissimo in cui ogni movimento avviene, e che si produce anche su scala infinitesimale, sopra quella pelle che non smette mai di fungere da canale di transito.

Indipendenti e al contempo dipendenti le une dalle altre, queste opere suggeriscono una concatenazione di eventi e di corpi – senza mai dichiarare di quale corpo o parti di corpo si tratta – e, come spesso accade anche in altri lavori di Sara, è qui accennata una partitura ritmica di posture e tensioni che cattura movenze minime e involontarie: gesti in precario equilibrio o in riposo che nel loro abitare e agire lo spazio, aprono a una silente dimensione spettatoriale, nella cui stasi apparente riscopriamo i movimenti inumani di cui ogni corpo è capace, le forze che su di esso agiscono, e le sue sensorialità espanse.

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Giovanna Manzotti